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La terapia cognitivo – comportamentale per il disturbo di panico si basa sul presupposto che, durante un attacco di panico, la persona tenda ad interpretare erroneamente alcune sensazioni corporee come “pericolose” per la propria incolumità.

Queste interpretazioni, spaventando la persona, scatenano l’ansia, che si manifesta con particolari sintomi mentali e fisici.

Quali stimoli scatenano il panico

Tra gli stimoli “esterni” che possono scatenare il panico, ci possono essere alcune situazioni vissute come pericolose. Tra queste alcuni esempi sono i luoghi chiusi (ascensori, auto, stanze piccole), gli spazi aperti, i luoghi affollati (supermercati, cinema, mezzi di trasporto).

Gli stimoli interni riguardano invece alcune sensazioni corporee (es. tachicardia, sensazione di svenimento, l’affanno, la confusione mentale).

La persona inizia a temere che ciò che sente scateni un attacco di panico e che questo porti a morire, impazzire o perdere il controllo.

Può capitare, ad esempio, di interpretare l’accelerazione del battito cardiaco, dovuta ad uno sforzo fisico o ad una normale variazione dell’attività del cuore, come un segnale di imminente scompenso cardiaco.

La lettura in termini minacciosi di una sensazione corporea innesca il sistema di allarme che si manifesta attraverso l’ansia.

I sintomi “fisici” dell’ansia vengono poi, a loro volta, interpretati in modo catastrofico come la prova che sta accadendo qualcosa di terribile (“oddio cosa mi sta succedendo? mi sto sentendo male?) .

Questa lettura farà si che loro intensità cresca ulteriormente, intrappolando la persona in un circolo vizioso che culmina in un attacco di panico.

Il primo circolo vizioso del panico di Clark. In un caso lo stimolo che innesca l’ansia e una sensazione, la vertigine mentre nell’altro è una azione, il guidare

Nell’esempio precedente del battito cardiaco, le manifestazioni dell’ansia, che vanno proprio ad accelerare il cuore, possono essere interpretate come il segnale imminente di un infarto. La persona inizierà quindi a pensare cose quali “Sto per avere un infarto!”, “Sto per morire”, spingendo così ancor di più “l’acceleratore” dell’ansia, portandola fino al panico.

La terapia cognitivo – comportamentale per il disturbo di panico prevede che:

  • la persona diventi consapevole dei meccanismi automatici che caratterizzano il panico
  • riconosca tali meccanismi quando sono in atto e attribuisca ad essi un nuovo significato
  • aumenti gradualmente la tolleranza e l’accettazione delle sensazioni dell’ansia, che pur estremamente sgradevoli, non costituiscono una forma di pericolo

Il protocollo di intervento cognitivo – comportamentale per il disturbo di panico

In generale, la terapia cognitivo – comportamentale per il disturbo di panico prevede che la terapia segua il seguente “percorso”:

  • ricostruire assieme al paziente la “storia” del disturbo. Attraverso un determinato modello (un esempio è l’ABC delle emozioni) viene “fotografato” il primo attacco di panico e le crisi più recenti
  • andando ad individuare i possibili fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento del problema (il mio rapporto con l’ansia, cosa è accaduto nel periodo della prima crisi, cosa mantiene il mio problema).
  • la formulazione di un contratto terapeutico. Tale “accordo” contiene in particolare gli obiettivi condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (il terapeuta propone dei “compiti” che il paziente che si impegna a provare durante la settimana oppure in seduta)
  • nella fase iniziale della terapia il terapeuta lavora con il paziente sulla “psico-educazione”. Questa consiste nel fornire al paziente informazioni sull’ansia e sul panico, in particolare sulle modalità di insorgenza del problema e sul mantenimento.
  • ricostruzione del “circolo vizioso del panico” proprio di quel paziente
  • lavoro sulle interpretazione erronee delle sensazioni dell’ansia e del panico
  • insegnamento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia (che possono essere di molteplici tipi, dalla respirazione controllata, al rilassamento, alle pratiche mindfulness)
  • l’ utilizzo delle tecniche di esposizione graduale alle sensazioni e agli stimoli temuti ed evitati (sblocco degli evitamenti, dei comportamenti protettivi e del controllo)
  • lavoro conclusivo sulla prevenzione delle ricadute

Riconoscere ed accettare il fatto che l’ansia fa parte di noi (tutti)

L’ansia è un’emozione universale e biologicamente determinata

Un punto importante della terapia cognitivo – comportamentale del disturbo di panico consiste nel riconoscere e superare quello che tecnicamente di definisce “problema secondario”.

Per “problema secondario” si intende il giudizio che la persona ha sul fatto di provare ansia e temere l’ansia come emozione. In sostanza è ciò che pensiamo di noi per il fatto di avere un “problema”.

Capita spesso che, chi soffre di un Disturbo di panico, viva questo aspetto del suo funzionamento come un segnale di fragilità inaccettabile, come qualcosa per cui provare vergogna o come un aspetto incompatibile con il proprio “carattere”.

Il fatto di avere delle forti crisi d’ansia e le limitazioni alla normalità che la persona mette in atto per “proteggersi” dall’ansia possono portare, alla lunga, inoltre, a sentimenti depressivi e di autocommiserazione.

Quello che penso di me stesso per il fatto di “avere degli attacchi di panico” (dal rifiuto alla completa identificazione il mio problema) interferisce con l’andamento della psicoterapia. Smettere di giudicarsi (male) per il fatto di avere una difficoltà è un passaggio importante per poter essere aperti allo sperimentare l’ansia con occhi nuovi, accogliendo gli alti e bassi del percorso terapeutico.

E’ importante riconoscere che moltissime persone convivono (pacificamente) con la loro ansia, magari anche con livelli di ansia elevati, eppure non ritengono l’ansia un impedimento a realizzare ciò che è importante per loro, né come una debolezza da “sanare”.

Sono disposte a provare ansia e sanno che, come tutte le emozioni, è uno stato transitorio, momentaneo.

Riconoscono la loro ansia, la accolgono e affrontano ciò che li “agita”, nonostante ciò che sentono e ciò che pensano:

sono “gentili” con se stessi e “accettanti”

Lo scopo non è “non provare più ansia”

Molto spesso la richiesta al terapeuta di chi soffre di un disturbo d’ansia è “Vorrei non provare più ansia (o panico)”. L’idea sottesa è che, se non provassi più ansia sarei finalmente una persona “sicura”, forte e degna.

Non solo perché provare ansia è estremamente spiacevole (le sensazioni dell’ansia non piacciono a nessuno ed già è un grande “lavoro” quello di imparare a “stare” con l’ansia) ma anche perché si attribuisce a questa reazione il significato di debolezza, fragilità.

Molti pazienti si vergognano per il fatto di provare ansia, o dopo il primo attacco di panico, dicono di non sentirsi più se stessi. Non ritengono possibile che questa cosa sia capitata proprio a loro, soprattutto se hanno un’idea di sé come di persone “forti” e capaci.

Trovano inaccettabile reagire a certe situazioni o sensazioni in quel determinato modo; arrivano a non tollerare più non solo le manifestazioni di ansia più intense, ma anche solo i primissimi segnali di attivazione.

Comprendere che l’ansia è una emozione universale con una funzione protettiva e che ognuno di noi ha un “sistema di allarme” interno che funziona automaticamente quando la nostra mente percepisce un qualsiasi pericolo, può essere una idea difficile da “digerire”.

Capire che gestire l’ansia non significa annullare una reazione e “non sentire” più nulla quando ci si espone a ciò che si teme, ma scoprire che possibile “fare” tutto ciò che CREDIAMO sia l’ansia a impedirci di fare.

Se il paziente non è disposto a

  • “sentire” la propria ansia per scoprire come, di fatto, non sia pericolosa ma “solamente” molto spiacevole e comunque temporanea
  • ad accettare l’idea che gestire l’ansia equivalga a imparare a riconoscerla, nel corpo e nella mente e a risponderle in modo più efficace

è molto probabile che il percorso terapeutico risulti più complesso e/o inefficace.

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